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Un tuffo negli anni Novanta: Will Smith apre le porte dell'iconica villa, per un soggiorno da principi prenotabile solo su Airbnb

Per la prima volta in assoluto, gli ospiti locali potranno rilassarsi in un'ala di una delle case più amate della televisione. Per celebrare gli indimenticabili ricordi, le preziose lezioni di vita e le risate che hanno accompagnato il pubblico per decenni, Will Smith scompiglierà - ancora una volta - la città dove è iniziato il suo regno. L'attore e imprenditore ha infatti aggiunto la qualifica di “host Airbnb” al suo lungo curriculum di successi, aprendo le porte del suo ex "regno", permettendo così ai fan di vivere l’esperienza in prima persona.

La residenza non ha perso il fascino di quando era la casa più seguita della tv. Graffiti, interni eleganti, ritratti di famiglia senza tempo e cheesesteak di Philadelphia serviti su piatti d'argento trasporteranno gli ospiti nel lusso fino ad oggi visto solo attraverso il piccolo schermo. A partire dal 29 settembre alle 11:00 PDT (20:00 ora italiana), gruppi di massimo due residenti della Contea di Los Angeles avranno la possibilità di prenotare uno dei cinque soggiorni in un'ala della casa di Will, disponibili nelle date 2, 5, 8, 11 e 14 ottobre. Le prenotazioni hanno un costo di soli $30, come 30 sono gli anni passati da quando Will ha bussato alla porta di questa iconica casa di Los Angeles per la prima volta.

Gli ospiti potranno dormire per una notte nell'ala del palazzo, con accesso alla sua lussuosa camera da letto e al pomposo bagno, un'area lounge a bordo piscina e un'elegante sala da pranzo. Durante questa notte regale, gli ospiti potranno godere di un po' di divertimento alla vecchia maniera, in vero “Big Willie Style”.

Ci sarà infatti la possibilità di indossare un paio di Air Jordan prima di fare qualche canestro in camera da letto; ascoltare per tutta la notte dei classici throwback, come quelli di DJ Jazzy Jeff, sul giradischi; provare un fashion look direttamente dall'armadio del principe, con capi di Argyle Prepster a All Star Athletics e Bel-Air Athletics; prendere il sole a bordo piscina su sedie a sdraio di lusso; essere (virtualmente) accolti nella villa nientemeno che da DJ Jazzy Jeff.

Le regole della casa rispettano le linee guida locali relative al contenimento della pandemia Covid-19; chi intende prenotare deve dimostrare la propria residenza nella contea di Los Angeles e di stare attualmente soggiornando in città per ridurre al minimo i rischi. Gli ospiti possono riposare tranquillamente nel letto matrimoniale sapendo che la casa sarà pulita secondo le regole del CDC e in linea con il protocollo di pulizia avanzata di Airbnb.

Louis Vuitton, il fiore all'occhiello di LVMH, il più grande gruppo di lusso al mondo, si è avventura in un nuovo territorio. L'azienda ha creato una sneaker da skateboard modello professionale.
 
Virgil Abloh, direttore creativo di Louis Vuitton da uomo, ha rivelato su Instagram il primo accordo “skater” con lo skateboarder professionista Lucien Clarke della Giamaica, permettendo a Clarke di progettare la sua scarpa da skateboard professionale. 
 
Lo skateboard è una delle sottoculture preferite per la moda. Quest'anno, ad esempio, c’è stata una forte rinascita della Nike Dunk SB, uno stile che gli skater hanno adottato e reso popolare dopo la sua introduzione iniziale come scarpa da basket nel 1985. 
 
La nuova sneaker e l'accordo con Clarke stanno facendo molti rumors in questi giorni e i dettagli sul rilascio della scarpa, compreso il prezzo, non sono ancora stati rivelati. 
 
 

Presto o tardi doveva accadere. Dopo migliaia di chilometri in solitaria in sella alla mia moto, che conosco a menadito, era scritto che alla prima occasione in cui mi lascio convincere a noleggiarla e ad andare in gruppo, qualcosa dovesse andare storto. Ma andiamo con ordine.

È da quando (anni fa) ho letto il romanzo di Henry Miller “Il Tropico del Cancro”, che mi è presa la curiosità di andarci davvero fin laggiù, nei territori del Sahara Occidentale, un lungo cuscino di terra tra il Marocco (che ne esercita la giurisdizione) e la Mauritania, ultimo baluardo prima dell’ingresso in una delle no man’s land più profonde del pianeta. Certo, il romanzo di Miller non ha nulla a che vedere con il luogo geografico, ma la sola suggestione del titolo mi ammalia. Il mio amico Daniele vive in Marocco ed è lui che a settembre mi aggancia facilmente proponendomi di partire da Marrakech e percorrere i duemila chilometri di Transahariana occidentale che porta fino a Dakhla. Non me lo faccio ripetere due volte. Compro cartina e guide, scandaglio internet e raccolgo informazioni, surfo su YouTube e familiarizzo con le immagini dei luoghi per imprimermi i punti di riferimento, le difficoltà dei tragitti e le percorrenze. Poi comincio a pianificare il percorso. So già che tutto questo non mi servirà a nulla, perché una volta laggiù mi farò portare dalla strada. Ma la programmazione non è meno divertente e affascinante del viaggio stesso. Anzi, è un altro viaggio. Alla fine, concludo che l’itinerario è lungo e a tratti decisamente noioso, ma abbastanza agevole. Per renderlo più movimentato, inserisco una puntata a Plage Blanche e lì ho peccato di leggerezza.

Partiamo da Ciampino il 2 gennaio alle 7 del mattino, ancora imbolsiti dal sonno e dagli stravizi del capodanno. Ma abbiamo gli spiriti allegri e pronti ad affrontare tutto. Siamo in quattro, con equipaggiamento leggero: non prevediamo di accamparci, ma di sostare in hotel ad ogni tappa. Me ne pentirò.

Ho un posto finestrino e mentre l’aereo scende di quota rimango incantato dai rilievi ondulati dell’Atlante che si innalzano dalla superficie della terra come grinze di pelle di uno sharpei. È tutto giallo ocra e marrone e immagino l’aria secca e polverosa che si respira a terra. Non vedo l’ora di sostituirla allo spessore di polveri sottili accumulato a Roma nelle narici e negli alveoli polmonari.

Noleggiamo le moto a Marrakech, quattro enduro tedesche di media cilindrata che nei patti dovevano essere praticamente nuove. Invece, appena accendiamo i quadri, scopriamo che sono parecchio chilometrate. La mia ne ha quasi 83mila sul groppone, l’ABS non è disinseribile (e in fuoristrada questo è un incubo), frena a singhiozzo e le sospensioni anteriori sono praticamente inesistenti. Per non parlare della sella ribassata che non si può rialzare e sono così costretto a guidare con le ginocchia alle orecchie. Scopro anche che oltre i 3mila giri, dal carter del motore arrivano vibrazioni preoccupanti. Ormai è fatta e per quello che costano, possiamo anche correre qualche rischio, tanto la velocità di crociera non andrà mai oltre i cento all’ora. E poi abbiamo un mezzo di sostegno con meccanico a bordo che ci seguirà fino al Tropico del Cancro.

Partiamo subito, direzione Agadir, dove passeremo la notte, prima di affrontare l’anti Atlante e poi giù da Guelmim fino a Dakhla attraversando, Tan-Tan e Boujdour.

I duecento chilometri che separano Marrakech dalla sorella sull’Atlantico sono noiosi e abbastanza piatti. Li percorriamo in circa tre ore con calma e fermandoci per un panino. Il clima è secco. Durante il giorno la temperatura è gradevole e al sole si raggiungono facilmente i 25 gradi. Ma la sera e al mattino presto, la temperatura scende a 10 gradi e sarà di poco sopra lo zero man mano che ci addentreremo tra i rilievi dell’Anti Atlante a sud.

Ci svegliamo con calma, pronti per i primi quattrocento e passa chilometri fino a Guelmim. Colazione e partenza. Tocchiamo Tafraut attraversando l’Anti Atlante da Ait Baba, lungo un percorso di montagna pieno di tornanti da fare in quarta piena dentro un paesaggio splendido, illuminato da un sole che acceca e rende i colori nitidissimi. Da lì ci spostiamo verso Ait Mansour dove sostiamo per il pranzo. Poi, anche se il sole comincia a calare, ci dirigiamo verso le Gole di Ait Mansour. Lo spettacolo è unico. La strada all’inizio si immerge in formazioni rocciose antichissime che richiamano certi percorsi cinematografici del vecchio West americano, in stile Colorado. Poi inizia a scendere lungo il corso del Mansour fino a restringersi in una striscia sinuosa di curve che corre a fianco del fiume. Ne usciamo satolli e riprendiamo la strada verso Ait Herbil e da lì dritto a Guelmim per la notte.

Arriviamo infine al punto di sosta che è già sera inoltrata. La temperatura è rigida sull’altopiano. Per fortuna il campeggio dove passiamo la notte ha bungalow di tufo che mantengono all’interno il calore accumulato durante il giorno e si sta bene. Ci preparano delle tajine di carne deliziose e dopo cena ci fermiamo per un tè sotto le tende berbere, dove arde un falò che illumina la notte. Dormo vestito, sotto una trapunta senza lenzuola. Mi addormento subito. Al mattino la temperatura è prossima allo zero, faccio una doccia bollente, mi vesto e dopo colazione, via verso le Plage Blanche. Oggi abbandoniamo il clima freddo delle montagne per quello più mite lungo l’Atlantico.

Dopo una settantina di chilometri tappezzati da una fitta vegetazione di fichi d’india (mai visti così tanti, nemmeno dalle parti mie in Sicilia), ci fermiamo su un’altura brulla che domina l’imbocco nord di Plage Blanche, una lunga striscia di arenile che finisce a Cap Draa, dove sfocia l’omonimo fiume che attraversa il Marocco. Il clima è gradevolissimo, anzi fa quasi caldo. La spiaggia è deserta. Solo un paio di militari si fermano e ci spiegano che adesso la marea è bassa e la spiaggia è facilmente percorribile per una quarantina di chilometri, fino alla foce dell’Aoreora. Da lì bisogna addentrarsi per circa quattro chilometri lungo il letto asciutto del fiume e riprendere una pista di pastori che risale il versante ovest fino ad incrociare la N1 verso Tan-Tan. Ci avvertono però che la marea qui è bizzarra e loro non sanno dire con esattezza quando risalirà. Ma dovremmo fare in tempo. Inshallah!

Scendiamo in spiaggia con cautela, guadiamo la foce semi asciutta del Oued Bou Ssafen che delimita l’ingresso a Plage Blanche e dopo qualche giretto per familiarizzare con il bagnasciuga compatto, giù a manetta verso sud-ovest per incrociare il vecchio Forte a presidio della falesia che scende a picco in prossimità del fiume Aoreora. E qui inizia l’avventura. O dovrei dire la disavventura.

Siamo così eccitati dalla corsa sul bagnasciuga compatto e deserto che guidiamo per oltre un’ora a ad andatura piuttosto allegra. Ovviamente, superiamo il Forte senza nemmeno accorgercene ed a un certo punto, quasi a Cap Draa, le moto affondano nella sabbia mista a gusci vuoti di telline. La marea sta salendo e siamo in un punto stretto. Tornare indietro in quelle condizioni e senza nemmeno sapere cosa troveremo è impensabile. Oltre le dune alle nostre spalle, scovo una pista di sabbia abbastanza compatta, ma occorre portarci le moto per affrontarla. Impieghiamo un paio d’ore buone a metterle in sicurezza e percorriamo la pista per qualche chilometro fino ad un’erta che oggettivamente è impraticabile con le nostre motociclette, comunque pesanti e con gomme non adatte ad una scalata di quell’intensità. Un militare (siamo dentro un’area controllata dall’esercito) ci aiuta. Proviamo a spingere una moto sulla salita, ma è fatica sprecata. La sabbia è profonda e asciutta e mista a grossi sassi. Uno sforzo inutile sotto il sole che picchia come ad agosto. Peraltro, ne abbiamo 4 di moto da far risalire e noi siamo in quattro più il milite ignoto, anzi in tre, visto che uno di noi è giù di giri, stremato dalla fatica e da qualche acciacco che si è procurato mentre affrontava la lingua di sabbia.

Torniamo sulla pista e ci spostiamo di qualche centinaio di metri verso nord-est. Non abbiamo segnale GSM e realizzo che è così da quando siamo scesi sulla spiaggia. Non riesco a fare un punto preciso di dove siamo. Cerco di aiutarmi con la cartina, i punti di riferimento a terra, la bussola e l’altezza del sole, mettendo in pratica qualche rudimento marinaresco. Ma un conto è avere sotto mano una carta nautica armato di compasso e squadrette, e un altro è armeggiare con una Michelin. Alla fine, mi rendo conto che siamo ad una decina di chilometri di distanza dall’imboccatura dell’Aoreora. Però, la direzione è corretta. Peccato che più avanzo, più la sabbia perde compattezza e sono troppo stanco per andare a tutta manetta. E infatti la moto sprofonda nella sabbia, lentamente, e altrettanto lentamente cado. Cerco di tirarla su immediatamente, vinto da una strana frenesia. Voglio uscire da quel pantano di sabbia. Ma non ho l’aiuto dei cilindri laterali del mio GS, e in più gli stivali non hanno presa sulla sabbia asciutta e finissima e spostare duecento chili diventa un’impresa titanica. Su qualunque altro terreno, l’avrei però tirata su in dieci secondi. Alla fine ci riesco, ma mi rendo conto di aver dato fondo a tutte le mie energie. Inutile proseguire. Sono in sella da sette ore, sotto un sole cocente che a queste latitudini è quasi allo zenith (siamo a 800km dal Tropico del Cancro), né io né gli altri abbiamo più acqua e cibo. L’unica è aspettare che qualcuno passi per chiedere aiuto. Mi accascio sulla sabbia e aspetto che il resto della ciurma mi raggiunga. Non penso a nulla. Non rifletto. Mi spengo per qualche minuto. Poi urlo, incazzato nero. Svuoto la rabbia e l’impotenza e mi calmo. Ricomincio a ragionare.

Gli altri arrivano dopo una mezz’ora. Analizziamo la situazione e siamo d’accordo. Non ha senso continuare su un terreno così, senza acqua o cibo e senza sapere se la pista si interrompa o continui fino all’Aoreora. Il punto in cui ci troviamo consente invece di ridiscendere in spiaggia facilmente, è ben riparato e la sabbia è calda e asciutta. È deciso: si dorme qui tra le dune e domattina, quando la marea scenderà di nuovo, rimetteremo le moto in spiaggia e via. Disagiati, ma non disperati. Anzi, in fondo quasi divertiti per il lusso di un’avventura che alla nostra età mai avremmo pensato di vivere.

Sono quasi le cinque del pomeriggio e il sole comincia a scendere sull’orizzonte. Per ammazzare il tempo, vado “in perlustrazione”, scavalco una duna e scendo in spiaggia. Qualche centinaio di metri davanti a me ci sono due motociclisti insabbiati e un “aborigeno” in jillaba che cerca di aiutarli. Mi avvicino per dare una mano. La moto affondata nella sabbia bagnata è un endurone nuovo di pacca con su tutta la Santa Barbara di accessori della casa: borse laterali in alluminio, top case extra large, borse morbide, tenda, sacco a pelo, navigatore GPS e serbatoio da 32 litri pieno. A occhio e croce peserà almeno 350kg, se non di più. Logico che affondi nella sabbia ammorbidita dalla marea che si alza. Il centauro è spagnolo, ma parla un inglese pulitissimo. Smonta tutto e gli spiego che l’unico modo di tirare fuori la moto dal fosso che ha scavato accelerando è buttarla giù su un fianco senza pietà e trascinarla facendo perno sul cilindro. Accetta senza fiatare. Operiamo e in un istante è fuori. Con lui viaggia un suo amico indiano, in sella ad una Himalayan, che osserva il recupero con asiatica ieraticità e distacco. Scambio due parole con loro. Hanno fatto il nostro stesso percorso e come noi si sono spinti oltre l’uscita del Forte, rimanendo intrappolati dalla marea. Ma, vogliono provare a tornare indietro o almeno percorrere quanta più sabbia possibile verso la foce dell’Aoreora e magari accamparsi al sicuro e aspettare che la marea scenda. Quando ripartono, chiedo all’uomo in jillaba se può aiutarci in qualche modo e con un francese stentato mi spiega che è un militare ed è responsabile di un posto di controllo, poco più di una garitta in prefabbricato, situata sulla sommità della falesia. Mi segue al nostro accampamento e mi dice qualcosa che non capisco, ma il gesto di aspettare lì è inequivocabile. E tanto dove dovremmo andare? Lo vedo inerpicarsi come un camoscio sulla falesia e sparire oltre il ciglio. Mezz’ora dopo ritorna con tè caldo, sei litri d’acqua, pagnotte e scatole di sgombro sott’olio. Dio lo benedica!

Mangiamo seduti per terra sulla duna, di fronte ad un tramonto mozzafiato. Il sole è un cerchio arancione luminosissimo che incombe morbido su Cap Draa e fa brillare l’Oceano. L’aria è ancora sufficientemente secca da consentire ai colori di stagliarsi netti, senza nuances. L’odore del salmastro si mescola con il pulviscolo della sabbia in un mix unico. Mi giro e dietro di me sulla volta celeste che dall’azzurro volge al blu scuro della notte si staglia netta una luna abbagliante, seguita dalla cintura di Orione. È semplicemente magnifico, mi dico. E non me ne importa niente di essere bloccato nel mezzo del nulla, senza la possibilità di comunicare con alcuno, con poco salatissimo cibo, senza tenda, senza sacco a pelo, senza coperte e di dover passare la notte qui sulla nuda terra. Sono in pace con il cosmo. Almeno in quell’istante.

Mi scuoto dall’incanto e vado a far legna. La notte si preannuncia umida e fredda. Mi arrampico sulla falesia e raccolgo sterpi secchi e pezzi di legno. Poi torno, estraggo della benzina dal serbatoio della moto e dò fuoco a tutto. È un attimo e viene su un falò degno della Santa Inquisizione. Il nostro amico berbero ci ha portato una coperta. Un po’ striminzita, ma ce la facciamo bastare e comunque il fuoco è alto e riscalda. Mi chiedo che succederà quando ci addormenteremo e si spegnerà. Adesso la temperatura è ridotta ad una manciata di gradi appena sopra lo zero. Mentre immagino turni di guardia, anche per tenere lontano qualche animale, mi assopisco sotto una volta trapunta di stelle che non vedevo in tale quantità da quando ero bambino in Sicilia e l’inquinamento luminoso semplicemente non esisteva.

La notte scorre lentissima. Ho freddo, le protezioni rigide del giubbotto non mi consentono di poggiare la testa a terra e Daniele russa sonoramente come la sega di un boscaiolo. C’è un umido che si taglia con l’accetta e dall’Oceano sale una bruma fredda e bagnata che penetra le ossa. Mi alzo più volte. Gironzolo un po’ per riscaldarmi e in una delle mie sortite vado anche in perlustrazione sulla pista di sabbia, giusto per essere sicuro che porti da qualche parte. La percorro per oltre un chilometro. Sono le 4 del mattino, la luna non è tramontata del tutto e un riverbero di chiarore consente ancora di orientarsi al buio. Ho una torcia con me, ma preferisco non accenderla per non attirare insetti o animali. Le orecchie sono tese e l’udito al massimo. Ma per quanto mi sforzi, non c’è suono diverso dal rumore attutito dei miei stivali che affondano nella sabbia e delle onde dell’Atlantico che si infrangono sul bagnasciuga.

Sto quasi per tornare indietro, quando noto che la pista non procede più parallela all’arenile, ma devia verso l’interno. La percorro. Adesso le dune alla mia sinistra sono più numerose e il fragore delle onde è appena un suono di fondo intermittente. Calcolo che tra il tracciato e la spiaggia ci saranno più di duecento metri. Di sabbia finissima come polvere. Non ha senso continuare. Torno indietro, convinto che il punto dove siamo è il migliore per ridiscendere sul bagnasciuga e tornare indietro. Ancora non lo so, ma questa passeggiata mi sarà utile domani mattina per impormi sulla volontà degli altri di affrontare la sabbia. Benedetta insonnia.

Alle 8 del mattino, il nostro amico berbero arriva con tè, pagnotte, formaggio cremoso e olio d’oliva per la colazione, che consumiamo con voracità. Il sole si comincia ad intuire dietro la falesia, ma l’aria è ancora gelida e accendiamo un altro falò per riscaldarci. Vorrei una doccia calda. Due ore dopo, cominciamo a spostare le moto sulla spiaggia. Hanno tutti smania di ripartire, ma non è ancora il momento. Il sole è basso, la marea è alta e la risacca prepotente, e bagna la sabbia rendendola impraticabile. Intorno alle 11 decidiamo finalmente di muoverci. Sgonfio un po’ le ruote e parto per primo. All’inizio, la moto affonda e si fa fatica, ma insisto e apro il gas, riuscendo a galleggiare quel tanto che basta per tirare dritto. Ad un certo punto, però, sbaglio traiettoria e mi inchiodo sul bagnasciuga ancora troppo umido. Butto giù la moto e trascino il retro fuori dal fosso di sabbia, la rimetto in piedi e lentamente riparto, faticando non poco a trovare una striscia di sabbia meno mobile di quella. Sono già stanco, ma continuo per una mezz’ora a tutto gas e finalmente vedo la foce dell’Aoreora. Mi sembra di aver viaggiato per ore. Mi fermo e aspetto che gli altri mi raggiungano dopo una mezz’ora, che a me sembra però lunghissima. Voglio uscire da lì.

Abbiamo impiegato un’ora buona ad arrivare e non sono mai salito oltre la terza marcia. Abbiamo due opzioni, una comoda e sicura: possiamo tirare dritto e in meno di tre quarti d’ora saremmo al punto di accesso del giorno prima e da lì possiamo proseguire fino a Tan Tan sull’asfalto della N1. L’altra opzione conduce di nuovo verso l’ignoto e consiste nell’addentrarci nel letto semi asciutto del fiume e cercare la pista che si connette con la N1 pochi chilometri più a est. Avete già indovinato su quale delle due si è indirizzata la scelta.

Il guado della foce è in realtà uno stagno dal diametro ampio un centinaio di metri, abbastanza profondo e limaccioso. Cammino lungo il bordo affondando gli stivali nella sabbia, alla ricerca di un accesso per le moto. L’aria intorno è ferma, non tira un refolo, e il sole comincia a picchiare duro. Non c’è anima viva. Nemmeno i gabbiani del giorno prima. Trovo un punto di ingresso agevole dalla corda nord per guadare in mezzo, dove l’acqua è più bassa e il fondo, misto a sabbia e sassi, è abbastanza compatto. Mentre in testa la traiettoria prende forma, dal nulla appare una carovana colorata di fuoristrada portoghesi che si immette nel letto dell’Aoreora a tutta velocità, proprio lungo il percorso che ho immaginato. Si può fare, mi dico.

Guadiamo facilmente e ci fermiamo a chiedere informazioni alla comitiva di fuoristradisti. Ci spiegano che il letto è facilmente percorribile. Sabbia, sassi, qualche pozzanghera e parecchio fango, ma niente di drammatico. Dopo circa quattro chilometri, il fiume forma una larga ansa quasi circolare che devia verso destra e alla fine della curva c’è una pista di pastori tuareg che ci porterà fuori da lì fino ad incrociare l’asfalto. Ci suggeriscono di seguire le loro tracce fresche e così partiamo. Un vero divertimento. Un percorso fuoristrada spettacolare, impegnativo, ma divertente. A un certo punto, incrociamo i due centauri del giorno prima, alle prese con l’ennesimo stop del primo in mezzo al fango. L’indiano appare spossato ed esasperato. Ci fermiamo ad aiutarli e decidiamo di proseguire insieme. Da qui in poi sarà un continuo di stop per aiutare lo spagnolo a spostare i quattrocento chili della sua motocicletta in mezzo a quell’inferno di pietre, rena fine, fango e pietrisco bagnato e scivoloso. A quella che scoprirò essere una distanza di duecento metri dall’imbocco della pista, la ruota davanti della mia moto si affloscia. Maledizione! Ci mancava pure questa. Urlo di rabbia. Nacho si ferma e con calma mi dice che non è grave, che possiamo ripararla. Comincia a cercare il buco, ma io capisco subito che non c’è nessun foro. Il cerchio è irregolare in almeno quattro punti e la ruota con la pressione ridotta per galleggiare sulla subbia non ha buona presa e si è sgonfiata. Proviamo a riempirla d’aria con il compressore portatile, ma senza successo. Bisognerebbe applicare del sigillante e gonfiare con un compressore più potente. Basta, mi arrendo. Chiudo la moto, prendo latitudine e longitudine, tiro giù dal calendario un paio di santi, che mi auguro siano molto tolleranti, e comincio a camminare per sbollire la rabbia. Guardo la cartina e faccio un punto a occhio regolandomi con il paesaggio. Capisco (anzi mi convinco) di essere a 8 chilometri di distanza dal punto in cui il fiume incrocia la N1. Nella peggiore delle ipotesi, posso camminare fino a lì e poi cercare aiuto. Daniele invece manda subito via Luca a cercare assistenza. Rimaniamo così in quattro d proseguiamo verso nord-est. Io a piedi, gli altri tre in moto. La velocità è la stessa, grazie all’amico iberico che affonda un metro sì e l’altro pure.

Qualche centinaio di metri dopo il punto dove ho lasciato la moto, il letto però diventa una pietraia infernale, alternata a sabbia profonda e finissima, portata dal Sahara che incombe da est fino ad affondare sul greto asciutto. Non vedo più le tracce dei fuoristrada né quelle di Luca. Strano. Bisogna uscire da lì, mi dico. C’è acqua e quindi di notte sarà un pieno di animali e alcuni non propriamente amichevoli. Non possiamo decisamente permetterci di rimanere. Cammino per quattro ore sotto il sole cocente, senza acqua né cibo. Le fauci secche e le labbra screpolate. Un sole insistente mi cuoce la pelata, che bagno sistematicamente ogni cinque minuti con l’acqua salata dei rigagnoli che corrono lungo il greto. Dietro, gli altri tre mi seguono con le moto. A metà di un tratto tempestato di sassi rotondi e levigati, che metterebbero a dura prova anche i più esperti enduristi, lo spagnolo si ferma, torna indietro e annuncia serafico di aver trovato la pista d’uscita. A fatica guadagniamo il margine asciutto del greto e saliamo in cima ad una collina a gradoni di roccia grinzosa e scivolosa. In alto, il panorama è splendido e il sole comincia a recitare lo spettacolo dell’ennesimo tramonto. Non troviamo l’uscita tuttavia, e sta per fare buio. Mi avvicino e leggo il GPS. Il nostro amico ha sbagliato lato, leggendo al contrario lo schermo. Capita. Scendiamo nuovamente sul greto e lo tagliamo in perpendicolare. Sul lato opposto, seminascosta da una piccola duna, parte una pista battuta. Finalmente! Salgo sulla moto di Daniele e partiamo. Sono le 8 di sera. Sette ore dopo, alle 3 del mattino, sto mangiando una pizza gommosa, ma deliziosa, nella veranda di un hotel a Tan Tan, ingollando litri di acqua. Farei carte false per una birra gelata.

L’indomani mattina mi attrezzo con un fuoristrada per rimorchiare la motocicletta. Daniele e Luca dichiarano di volermi aspettare per ripartire insieme per Dakhla. Li convinco invece ad andare da soli. Io li raggiungerò dopo aver recuperato quel pezzo di ferro inglorioso e essermi sincerato che può continuare a camminare fino al Tropico e ritorno. Si tratta di quasi 3mila chilometri e non voglio più sorprese. Più affondo verso sud, meno chances ho di ripararlo.

Riparto per l’Aoreora con un Land Rover scassato, guidato da un berbero gentile ma taciturno, anche perché non parla una lira di francese. Con me ci sono Adil e Ahmid. Dopo tre ore, raggiungiamo il greto del fiume e con l’ausilio delle coordinate e delle foto che mi danno i punti di riferimento, troviamo la moto a meno di duecento metri dall’imboccatura della pista. Il giorno prima eravamo vicinissimi e mi maledico silenziosamente. Ahmid ripara la ruota e parte a razzo. A mezzanotte siamo in hotel. L’indomani mi aspettano 800km fino a El Aioun per raggiungere Daniele e Luca e poi ingresso trionfale a Dakhla. Illuso. Al mattino, giro la chiave d’accensione e premo lo starter. Dal motore arriva un rumore secco, intermittente. Inarcò un sopracciglio, smonto il carter del motore. I miei sospetti diventano amara certezza quando vedo il cuscinetto del volano spezzato, così come il perno che lo regge.

Adesso, il Tropico del Cancro non è più una sfida stradale, ma esistenziale. Un lusso che ho l’obbligo di soddisfare! Presto.

All’inizio, l’idea era quella di fare un giro in Albania e sperimentare un assaggio del sincretismo balcanico a 80 miglia nautiche da casa nostra. Toccata e fuga. Ma se è vero che ogni viaggio inizia con la sua preparazione, è anche vero che appena metti le ruote sull’asfalto gli schemi posso saltare. Per me vale spesso. Sulla strada, la curiosità estemporanea ha il sopravvento. Anche (e specialmente) se mi fa deviare dal tracciato elaborato a tavolino. A maggior ragione se sono da solo. E così ho fatto anche questa volta. Insomma, mi concedo l’impagabile lusso di andare dove mi piace e fin dove mi portano la resistenza della cervicale e del …fondoschiena, prima che si facciano entrambi di lava infuocata.

Certo, per quanto zingaresca possa essere la mia attitudine, mai avrei pensato che la prima tappa del mio giretto nei Balcani sarebbe stata Sarajevo. L’idea si è insinuata prepotente durante la traversata in traghetto verso Spalato. La pulce nell’orecchio me l’aveva messa il mio amico Daniele, che c’era stato oltre vent’anni fa in tempo di guerra. Così, le sue suggestioni sono diventate la mia sfida e ho riprogrammato il mio itinerario mentre mi dirigevo verso l’altra sponda dell’Adriatico.

Arrivo alle 7 del mattino in una Spalato calda e umida. Esco dalla nave e imbocco l’A1 a missile per un centinaio di chilometri, verso il confine croato/bosniaco.

Mentre percorro l’autostrada, penso che dei Balcani ho una vaga idea a metà tra le romantiche e coloratissime sonorità zigane di Goran Bregovic e la memoria cronachistica, frammentaria e confusa di una storia di guerra recente, un tutti contro tutti popolato di genocidi, deportazioni e efferatezze mostruose, a meno di 10 ore di traghetto dalla nostra civilissima e calmissima Europa. Eppure, anche questa è Europa! Di confine certo, un tratto di propaggine occidentale dell’Eurasia, la marca tra noi aspiranti o sedicenti mitteleuropei, con il naso e gli occhi sempre all’insù verso la Germania, o la Francia o addirittura l’Inghilterra, e la prepotente influenza dell’oriente ottomano. Ma proprio per questo mi attrae di più, perché la immagino come una Bisanzio allargata e a volte slabbrata, dove civiltà, etnie, razze, religioni e culture esibite all’estremo continuano a mescolarsi in modo straordinario e affascinante. A volte virtuoso, a volte esplosivo, come burrasche improvvise su un mare calmo. In fondo, la miccia che ha innescato la prima guerra mondiale è stata accesa proprio a Sarajevo.

L’autostrada da Spalato alla deviazione verso il confine Bosniaco scorre liscia, una corda sinuosa che si snoda attraverso una vegetazione di montagna ricca di abeti e pini che impregnano di resina l’aria che respiro, a pieni polmoni. È inebriante. Fa freschetto quassù, ma lo sfondo dell’Adriatico mi scalda idealmente e proseguo senza soste. Esco a Mali Prog e imbocco la statale verso il confine bosniaco. Mi preparo mentalmente a percorrere strade dissestate lungo i segni di quel conflitto recente, ma rimango deluso, o meglio piacevolmente sorpreso. La strada ha un asfalto perfetto e scorre veloce tra colline morbide coltivate a vigneti, fino a quando mi appare il cartello “Carina—Custom”. Eccoci. Ne ho sentite parecchie sulla rigidità e bizzarria dei doganieri balcanici. Ma è un mito che va sfatato: giusto un’occhiata al passaporto e sono fuori dalla Croazia. Cento metri dopo, c’è il gabbiotto dei bosniaci, che sono gentili ed essenziali come i colleghi croati: passaporto e carta verde (ovviamente).

C’è pochissimo traffico, le strade sono quasi deserte e scorrono veloci fino a Mostar, la città del ponte più famoso d’Europa. Sono le 10 del mattino e fa un caldo infernale. Per 5 euro il proprietario di un bar all’ingresso della città vecchia mi fa parcheggiare e mi tiene giubbotto e casco e mi offre una birra gelata (imparo che si dice “pivo”). La scolo d’un fiato. Fanno 42 gradi e si soffoca. Mollo tutto ed entro nel villaggio della città vecchia, ricostruita di recente, insieme al Vecchio Ponte (Stari Most), abbattuto durante i bombardamenti del 1993. Adesso tutto è sotto tutela dell’UNESCO, ma a parte l’architettura perfettamente riprodotta, dell’antico borgo popolato da artigiani e botteghe rimane poco. Oggi è tutto un fiorire coloratissimo di negozietti di souvenir e di bar e ristoranti per le migliaia di turisti che si stipano sulle rampe del Ponte Vecchio.

Il caldo è asfissiante e la marea umana lo amplifica all’inverosimile. Non sono proprio a mio agio e decido di ripartire. Per strada, attraversando la città nuova, cerco i segni di quel conflitto recente. E li trovo, per nulla mimetizzati. Anzi, sotto gli occhi di tutti. Palazzine sventrate e segni di proiettili sui muri. Vestigia mute e immobili di una follia, che fingiamo di aver archiviato, ma che invece ci ricorda che basta un attimo per scivolare di nuovo nel caos.

Esco da Mostar non senza difficoltà e riprendo il viaggio verso Sarajevo, dove arrivo nel primo pomeriggio, guidando senza fretta lungo la statale che costeggia la Neretva. Uno spettacolo. Una delle strade panoramiche più belle che abbia attraversato ad oggi. Il fiume ha un colore verde smeraldo intenso e a quest’ora del pomeriggio una brezza termica scende rapida dai rilievi, prende velocità e increspa la superficie animandola con una carezza delicata. La luce è intensa e i colori sono nettissimi: azzurro del cielo, verde del fiume e grigio delle rocce.

A Sarajevo, i segni dell’assedio durato quasi 46 mesi dal 1992 al 1996 sono più evidenti e profondi. Nuove costruzioni si mescolano ai ruderi semidistrutti lasciati dal conflitto, ma la città oggi è in fermento e ricostruzione continua. Il centro antico è un brulicare di vita, di colori, di odori e di gente e la miscela tra oriente e occidente è palpabile, quasi…grassa e si coglie a vista. Su consiglio della receptionist dell’hotel, mangio ad una specie di bistrot turco, dove mi servono una porzione abbondante di Pita Burek, ripiena di carne speziata. Avrò gli incubi di notte e l’arsura mi farà lievitare la lingua, ma intanto mi lecco i baffi!

Non ho dormito affatto in traghetto e ho guidato con il fuoco nell’aria, quindi gironzolo ancora un po’ per la città vecchia e torno presto in hotel. Mi siedo nel cortiletto per una pausa sigaro prima di andare a dormire. Dal bar limitrofo le note di musica tecno si mescolano armonicamente al canto del muezzin, che chiama alla preghiera della sera. Affascinante, davvero.

L’indomani mattina riparto all’alba per attraversare il confine con il Montenegro, che mi dicono sia affollato, per arrivare nel primo pomeriggio a Kotor e lambire le bocche di Cattaro lungo la strada che le costeggia. Inizialmente, programmo di attraversare da Foca e tagliare per il massiccio del Durmitor. Ma senza rendermene conto il navigatore mi fa scendere di nuovo lungo la Neretva fino a Mostar, per poi deviare verso l’interno, direzione Stolac e R427. Benedetto GPS, che mi regala una tracciato magnifico a valle del fiume Bregava, un luogo incantato e fuori dagli itinerari standard. La strada ha il fondo un po’ sconnesso e irregolare, ma non è per correre, anzi è per un ritmo lento che consente di assaporare il contrasto tra la quiete del fiume a destra e i segni della storia recente alla mia sinistra. Ad un certo punto, l’acqua del fiume si abbassa ed è talmente cristallina che vedo il fondo dalla strada. Mi fermo, spengo la moto. Silenzio e quiete. Nemmeno lo scorrere invisibile dell’acqua rompe l’incanto. La tentazione è irresistibile e cedo. Mi spoglio e mi ficco in mutande nell’acqua gelata e rischio: la bevo. Un refrigerio che bilancia la temperatura interna del mio corpo con quella esterna immersa in quel liquido trasparente e gelido. Rimango a mollo per qualche istante, che a me sembra lunghissimo e bellissimo. Poi, mi rivesto tutto bagnato e riparto e dopo nemmeno dieci minuti sono di nuovo asciutto dentro e fuori. Il termometro segna 43 gradi. Ma io sto benissimo.

Stesso clima torrido al confine con il Montenegro. Il doganiere è gentile e parla inglese perfettamente. Mi chiede passaporto, libretto della moto e carta verde. Glieli consegno, ma vedo che tergiversa e mi preoccupo. Lui se ne accorge, sorride e si scusa, spiegandomi che le linee internet sono saltate e bisogna che aspetti qualche minuto. Mi invita a parcheggiare all’ombra nell’attesa, offrendomi una bottiglia d’acqua che ingollo con avidità (sono brasato a puntino e si vede). Dopo una decina di minuti di chiacchiere amene sul da dove vengo, dove vado, che faccio nella vita ecc. urla qualcosa ad un collega, che entra nell’ufficio e esce con un librone ingiallito dal tempo: “La registro come si faceva una volta: a mano — e ride —, altrimenti rischia di rimanere qui tutta la giornata.” Annota numero di targa, marca della moto e numero del passaporto, mette un timbro, mi prende la mano con entrambe le sue (enormi) e mi augura buon viaggio. Il mito dei doganieri balcanici, duri e brutali si sfalda definitivamente.

La strada da qui in poi è una pennellata netta di asfalto compatto e perfetto su una tela rocciosa, intervallata da cespugli verdissimi e profumati di mirto, abeti nani e altri arbusti che non riconosco. Non la percorro, è lei che mi porta, fino a quando dietro una curva non appare il panorama mozzafiato delle bocche di Cattaro. Una farfalla di acqua blu scuro disegnata da pendii a picco altissimi. Il panorama è magnifico e mi fermo incantato.

Finalmente, all’imbrunire, arrivo a Kotor (Cattaro in Italiano) città patrimonio dell’umanità e a ragione. Per oltre 350 anni, fino al 1797, è appartenuta alla Repubblica di Venezia che ha lasciato un segno indelebile nell’architettura di questa città che si specchia nelle bocche di Cattaro, una serie di profondi e frastagliati bacini perfettamente riparati dal mare aperto, che costituiscono il più grande porto naturale dell’Adriatico e che ricordano un po’ i fiordi Norvegesi. Un gioiellino, Kotor! E ne puoi percorrere le stradine strette decine di volte notando ad ogni passaggio un nuovo o diverso particolare, come se cambiasse prospettiva. È la pietra ad animarsi o il brulichio di turisti che gli dà vita?

L’indomani fa il solito caldo e il sole picchia. Indosso solo una polo e l’air-bag, e parto percorrendo la strada che si inerpica sulla montagna alle spalle di Kotor verso Lovcen. Al 12mo tornante perdo il conto delle curve e mi concentro piuttosto sulla carreggiata che è strettissima e ospita a malapena una macchina. Non è proprio una strada agevole: non c’è guard-rail e tutti a guardare giù il panorama di Cattaro (con annesse distrazioni alla guida!). Per fortuna, io la risalgo protetto a destra da una propaggine sud orientale delle Alpi Dinariche. Dopo 14 km mozzafiato, arrivo in cima e ridiscendo l’altro versante della montagna tra boschi di querce bulgare e abeti verso Cettigne. Curve perfette e veloci fino all’innesto con una stradina larga meno di due metri tra vigne e roveti in direzione del Lago di Scutari, che per due terzi è nel territorio montenegrino e per il restante terzo in quello albanese. La strada si restringe sempre più fino a diventare una lingua di asfalto sconnesso. Ad un tratto, senza preavviso, si apre il panorama del lago davanti a me e mi fermo, godendomelo con gli occhi e con l’anima. Ridiscendo il declivio e arrivo a Virpazar. Imbocco la lungo lago e mi fermo a respirare sulla riva dello Scutari, la più grande riserva d’acqua dei Balcani. In fondo vedo l’Albania, e mi riprometto di andarci un’altra volta.

Dopo il lago, tocca ai monti e più precisamente al massiccio del Durmitor, a nord del Montenegro, fino a 2500 metri di altitudine. Parto presto, perché sarà un percorso di oltre 500km e uscire da Kotor è un’impresa. La strada si snoda lungo le rive del Cattaro per 22km affollati di auto, camion e furgoni, tutti con uno stile di guida a tratti piuttosto eccentrico. Finalmente riprendo la statale panoramica e devio verso Niksic, percorrendo una strada bizzarra che alterna asfalto nuovissimo e, in alcuni tratti, senza preavviso si interrompe e diventa sterrato e pietre. Mi fermo per un caffè ad un bar sulla strada e la donna dietro al bancone mi guarda e mi ordina letteralmente di sedermi (“Sit down!”) e mi indica il cielo che all’orizzonte è plumbeo e squarciato di tanto in tanto da fulmini. Sta per piovere? Torno indietro? Ma no, sono equipaggiato…al diavolo…!

Per raggiungere Savnink, percorro una stradina tortuosa in mezzo alle montagne. Magnifica. Ma fulmini e saette si intensificano, illuminando il cielo ormai grigio scurissimo e carico d’acqua. Bruttissimo segno. Meglio indossare la tuta antipioggia. Mi vesto come un palombaro e vado. All’uscita di un tunnel di 6 km piove, ma è accettabile. Da Savnik devio verso Kolasin e poi Mojkovac per risalire la P4 che costeggia il fiume Tara. Percorro i venti chilometri della strada costruita sul bordo del canyon, secondo solo a quello del Colorado per profondità, trattenendo il respiro, letteralmente incantato. Quando giungo all’innesto con la P5, devio a sinistra e vado verso Zabliak, dove la pioggia smette del tutto. Ho ancora tempo e sono rinvigorito dallo spettacolo del percorso appena compiuto. Mi immetto così in una delle stradine panoramiche che attraversano il Parco del Durmitor, una linguetta d’asfalto stretta e scivolosa per la pioggia, ma piacevolissima e che termina su uno spiazzo dove un agente della forestale mi indica di proseguire per una decina di chilometri in fuoristrada. Il fondo adesso è pietroso, ma l’acqua è scivolata tra le rocce senza creare pantani di fango insidiosi. Sono leggero, non ho bagagli, ho gomme semi-tassellate e così posso mantenere un’andatura allegra, divertendomi come un bambino al parco giochi.

Quando lo sterrato termina, ritrovo l’asfalto, ma non ho la minima idea di dove stia andando. Ad un tratto, mi ritrovo non so come sul Lago Piva, attraverso un ponte e mi fermo. Apro la cartina e usando la bussola mi oriento e proseguo. I cartelli stradali mi confortano. Sto andando a sud verso Niksic e da lì la strada verso Kotor è nota.

Prima dei Balcani ho attraversato la Calabria, la Basilicata e la Puglia e da lì fino alle Marche, totalizzando al momento oltre 4000km, che comincio a sentire, dato che la cervicale si infiamma sempre più spesso e sempre prima del normale. Vorrei scendere in Albania, ma sarà per una prossima volta e così decido di prendermi qualche giorno di riposo dirigendomi verso la Dalmazia croata, per fermarmi un paio di giorni a Brac (Brazza in italiano). L’isola è grande abbastanza da consentirmi qualche giretto interessante. Certo è a quasi 300km da Kotor e ci vorrebbero teoricamente due traghetti per arrivare senza lasciare la Croazia. Ma scelgo di tentare la sorte e passare prima dal Montenegro alla Croazia verso Dubrovnik e poi percorrere il breve tratto di Bosnia dentro la Croazia stessa e rientrarvi. La prima dogana è affollatissima, ma un camionista mi fa segno di avanzare e ovviamente obbedisco! Arrivo alla barriera saltando tutta la fila e nessuno in macchina protesta, capendo perfettamente che loro hanno l’aria condizionata e io, in moto e tutto equipaggiato sotto 40 gradi all’ombra, sfrigolo come un filetto sulla graticola. Passo liscio e proseguo verso Dubrovnik dove devo assolutamente fermarmi. Questa è Ragusa di Dalmazia e con l’omonima in Sicilia (dove sono nato e ho vissuto la mia giovinezza) pare abbia in comune l’etimo: Lau cioè la rupe. Entrambe infatti sono appoggiate sulla roccia, la prima alle pendici del Monte Sergio, la seconda (la mia) sull’altipiano dei monti iblei (senza contare che Ibla, la città antica, è posta su una collina a forma di pesce). Peccato però che i 43 gradi all’ombra, l’elevata umidità e gli orari rigidi dei traghetti per Brac mi impediscono di fermarmi per più di un paio d’ore. Ci tornerò.

Riparto all’una con il sole allo zenit, attraverso il doppio confine come un razzo (neanche vogliono vederli i documenti) e arrivo a Makarska mezz’ora prima della partenza del traghetto per Brac. Un’ora piacevole di traversata, scendo e attivo il gps. Ancora 43km fino all’hotel nel paesino di Postira. Parto che il sole comincia a tramontare. La strada è bellissima e affronto le curve con calma, piegando con dolcezza. Sono stanco, ho male alla cervicale e i gioielli mi fumano dal caldo. Ma sono sereno.

Risalgo una collina, e la strada deserta piega tranquilla verso ovest. La percorro mentre la voce di Joan Baez che canta “Diamond and Rust” echeggia nel casco. Imbocco una discesa che attraversa un boschetto di abeti e ammiro i rami degli alberi ai lati della carreggiata che si piegano gli uni verso gli altri cercando strenuamente di afferrarsi a formare un arco verde. Sullo sfondo il sole è una palla rossa brillante e infuocata, che si staglia netta e senza aloni sul mare azzurro chiaro.

Mi alzo sulle pedane, respiro l’odore di resina, mi abbaglio di luce e semplicemente godo di tanta bellezza. Mi emoziono al punto che comincio ad urlare con tutto il fiato che ho in gola. Di pura gioia.

Formentera, l’isola più piccola delle Baleari, da sempre meta molto amata dagli Italiani, il 21 giugno ha riaperto le proprie porte ai turisti europei. L’isola, grazie alle sue particolari condizioni geografiche di isolamento e alla scarsa densità di popolazione in inverno, è stata poco colpita dalla pandemia riuscendo a limitare e contenere il contagio. Già dal 4 maggio ha infatti riaperto in sicurezza i suoi hotel, bar, ristoranti e attività turistiche applicando protocolli sanitari di sicurezza e diventando così una delle mete più sicure per trascorrere l’estate.

 A Formentera è possibile vivere una vacanza all’insegna della natura, del relax e del buon cibo, circondati da paesaggi unici. Tra incantevoli scenari mediterranei, spiagge bianche e acque turchesi, ampie foreste di pini e ginepri, 32 percorsi nella natura che conducono al mare, luoghi magici ricchi di fascino e cultura e una gastronomia gustosa e a kilometro zero, ecco 4 buoni motivi per andarci quest'estate.

Varietà di ampie spiagge

Formentera è caratterizzata da moltissime spiagge e calette dalla bellezza unica, dove godere di piacevoli giornate al mare, potendo scegliere tra un’ampia varietà. Tra le spiagge più belle spiccano Cavall d’en Borràs o Ses Illetes, magnifica spiaggia dai fondali bassi, giudicata una delle migliori del mondo anche da Tripadvisor, e Cala Saona, una baia naturale famosa per le incredibili sfumature cromatiche. Particolarmente suggestive anche le spiagge di Ses Canyes (Es Pujols), dalla peculiare forma a conchiglia, Es Arenals (Migjorn), dalla sabbia bianchissima che le dà il nome, e Ses Platgetes (Es Caló), nei dintorni del piccolo paese di pescatori di Es Caló de Sant Agustí. Per chi invece desiderasse scoprire paesaggi diversi, da non perdere è l’Estany des peix, un piccolo lago collegato al mare attraverso un piccolo e stretto canale e caratterizzato da piccole spiagge poco profonde.

Percorsi nella natura

Formentera è la meta perfetta per gli amanti del turismo attivo, che possono scoprire l’isola in libertà attraverso i 32 percorsi verdi che si diramano negli angoli più preziosi e inesplorati, praticabili a piedi, in modalità Nordic Walking, in bicicletta (la maggior parte dei percorsi sono adatti ai ciclisti) o correndo. Tra i percorsi più facili, adatti anche ai bambini, quello da Es Cap al Torrent de S'Alga permette di scoprire uno dei luoghi meno conosciuti e più speciali dell'isola, caratteristico per i suoi scivoli ben conservati per tirare in secco le barche. Chi vuole scoprire i diversi volti di Formentera dovrà percorrere il sentiero che da Sant Francesc porta al Cap de Barbaria, oppure gli sportivi più intrepidi possono percorrere a piedi il ripido percorso Racó De Sa Pujada - Es Ram che conduce fino al mare, alla piccola, pittoresca e isolata insenatura Es Caló des Mort.

Luoghi magici

Formentera non è solo spiagge e natura, ma presenta anche numerosi luoghi ricchi di fascino, cultura e storia. Da non perdere un giro per i fari dell’isola, dall’altopiano de La Mola a Cap de Barbaria, per ammirare panorami di rara bellezza. Il Faro di La Mola, il più antico e più alto dell’isola che sorge su una scogliera di 120 metri, è perfetto per osservare l’alba, che regala uno spettacolo unico e magico. Cap de Barbaria, situato su un promontorio roccioso, è uno di quei luoghi che emanano pura energia e offre uno scenario spettacolare soprattutto al tramonto. Molto suggestivo è anche il sistema di torri difensive che si sviluppa lungo la costa e che anticamente serviva a proteggere l’isola dai pirati. Sul territorio dell’isola di Formentera ce ne sono quattro: la torre de Punta Prima, nei pressi della località di Es Pujols; la torre a tre piani del Pi Catalá (o torre de Migjorn); la torre des Garroveret, a Cap de Barbaria; la torre de sa Gavina, nelle immediate vicinanze di Can Marroig e a nord di Cala Saona. E ancora insediamenti di età prestorica disseminati sull’isola, tra cui il Sepolcro di Ca na Costa o i giacimenti di Es Cap de Barbaria.

Una cucina a km zero

La cucina tipica di Formentera è ricca e sorprendente, creativa e saporita, caratterizzata da un forte legame con il modo di vivere tradizionale e con il mare, e presenta una dipendenza quasi assoluta dai prodotti autoctoni di alta qualità, dovuta all’isolamento dell’arcipelago. In tavola non può mancare la tradizionale ensalada payesa con il Peix sec (pesce secco), inserito nel catalogo “Arca del gusto” dell’Organizzazione Internazionale Slow food. Il pesce secco, che in passato permetteva ai pescatori di essere consumato tutto l’anno, è l’ingrediente imprescindibile di questa ricetta. Da provare sono anche il frit de polp, sofrit pagès (con carne e patate), i calamars a la bruta (calamari fritti nel proprio inchiostro) e il bullit de peix (stufato di pesce con patate).  I dolci e dessert più caratteristici sono il flaó (torta al formaggio fresco con mentuccia), le orelletes (dolce all’anice) e la greixonera (budino di pane alla cannella). Anche il miele e i fichi secchi sono prodotti dell’isola da non lasciarsi sfuggire. Infine, alla cantina di vini Terramoll si organizzano visite guidate con tanto di degustazione alla scoperta del principale vigneto dell’isola.

Quanto costa un materasso? O meglio, quanto deve costare un materasso per essere buono? Un ottimo materasso matrimoniale costa tra i 600 ed i 1.000 euro, mentre un discreto materasso difficilmente può trovarsi al di sotto di un range compreso tra 450 e 600 euro. Oltre i mille, parliamo di un materasso di grande qualità. 

Ma se affidassimo l'arredo della nostra casa ad un interior designer, così come ha fatto il rapper Drake, quanto costerebbe un materasso ? La risposta è: 360.000 euro.
Il rapper ha affidato all’interior designer Ferris Rafauli l'arredo della sua magione da oltre 4.600 mq. All'interno della casa di Toronto (non a caso soprannominata «The Embassy», ovvero «L’ambasciata»),appaiono oggetti come lo spettacolare pianoforte a coda Bösendorfer, personalizzato dall’artista giapponese Takashi Murakami o lo strepitoso lampadario in cristallo Swarovski da 20 mila pezzi, o ancora l’incredibile armadio a due piani pieno di Birkin per la sua futura moglie. Ma il  vero pezzo da novanta di casa Drake è il materasso da 390.000 dollari (360.000 euro), realizzato in collaborazione con l’azienda svedese Hästens, specializzata nella produzione di materassi di lusso.

Il Grand Vividus, questo il nome della pregiata struttura da letto, è interamente realizzato a mano (servono 4 persone e 600 ore) con un peso di mezza tonnellata, con angoli in pelle, dettagli in ottone dorato e crine di cavallo. Attualmente Drake è la sola persona al mondo che possiede questo materasso, considerato un bene di lusso. Altri nove «Grand Vividus» in produzione, già pagati in anticipo da altrettanti danarosi clienti, verranno consegnati a breve.