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All’inizio, l’idea era quella di fare un giro in Albania e sperimentare un assaggio del sincretismo balcanico a 80 miglia nautiche da casa nostra. Toccata e fuga. Ma se è vero che ogni viaggio inizia con la sua preparazione, è anche vero che appena metti le ruote sull’asfalto gli schemi posso saltare. Per me vale spesso. Sulla strada, la curiosità estemporanea ha il sopravvento. Anche (e specialmente) se mi fa deviare dal tracciato elaborato a tavolino. A maggior ragione se sono da solo. E così ho fatto anche questa volta. Insomma, mi concedo l’impagabile lusso di andare dove mi piace e fin dove mi portano la resistenza della cervicale e del …fondoschiena, prima che si facciano entrambi di lava infuocata.

Certo, per quanto zingaresca possa essere la mia attitudine, mai avrei pensato che la prima tappa del mio giretto nei Balcani sarebbe stata Sarajevo. L’idea si è insinuata prepotente durante la traversata in traghetto verso Spalato. La pulce nell’orecchio me l’aveva messa il mio amico Daniele, che c’era stato oltre vent’anni fa in tempo di guerra. Così, le sue suggestioni sono diventate la mia sfida e ho riprogrammato il mio itinerario mentre mi dirigevo verso l’altra sponda dell’Adriatico.

Arrivo alle 7 del mattino in una Spalato calda e umida. Esco dalla nave e imbocco l’A1 a missile per un centinaio di chilometri, verso il confine croato/bosniaco.

Mentre percorro l’autostrada, penso che dei Balcani ho una vaga idea a metà tra le romantiche e coloratissime sonorità zigane di Goran Bregovic e la memoria cronachistica, frammentaria e confusa di una storia di guerra recente, un tutti contro tutti popolato di genocidi, deportazioni e efferatezze mostruose, a meno di 10 ore di traghetto dalla nostra civilissima e calmissima Europa. Eppure, anche questa è Europa! Di confine certo, un tratto di propaggine occidentale dell’Eurasia, la marca tra noi aspiranti o sedicenti mitteleuropei, con il naso e gli occhi sempre all’insù verso la Germania, o la Francia o addirittura l’Inghilterra, e la prepotente influenza dell’oriente ottomano. Ma proprio per questo mi attrae di più, perché la immagino come una Bisanzio allargata e a volte slabbrata, dove civiltà, etnie, razze, religioni e culture esibite all’estremo continuano a mescolarsi in modo straordinario e affascinante. A volte virtuoso, a volte esplosivo, come burrasche improvvise su un mare calmo. In fondo, la miccia che ha innescato la prima guerra mondiale è stata accesa proprio a Sarajevo.

L’autostrada da Spalato alla deviazione verso il confine Bosniaco scorre liscia, una corda sinuosa che si snoda attraverso una vegetazione di montagna ricca di abeti e pini che impregnano di resina l’aria che respiro, a pieni polmoni. È inebriante. Fa freschetto quassù, ma lo sfondo dell’Adriatico mi scalda idealmente e proseguo senza soste. Esco a Mali Prog e imbocco la statale verso il confine bosniaco. Mi preparo mentalmente a percorrere strade dissestate lungo i segni di quel conflitto recente, ma rimango deluso, o meglio piacevolmente sorpreso. La strada ha un asfalto perfetto e scorre veloce tra colline morbide coltivate a vigneti, fino a quando mi appare il cartello “Carina—Custom”. Eccoci. Ne ho sentite parecchie sulla rigidità e bizzarria dei doganieri balcanici. Ma è un mito che va sfatato: giusto un’occhiata al passaporto e sono fuori dalla Croazia. Cento metri dopo, c’è il gabbiotto dei bosniaci, che sono gentili ed essenziali come i colleghi croati: passaporto e carta verde (ovviamente).

C’è pochissimo traffico, le strade sono quasi deserte e scorrono veloci fino a Mostar, la città del ponte più famoso d’Europa. Sono le 10 del mattino e fa un caldo infernale. Per 5 euro il proprietario di un bar all’ingresso della città vecchia mi fa parcheggiare e mi tiene giubbotto e casco e mi offre una birra gelata (imparo che si dice “pivo”). La scolo d’un fiato. Fanno 42 gradi e si soffoca. Mollo tutto ed entro nel villaggio della città vecchia, ricostruita di recente, insieme al Vecchio Ponte (Stari Most), abbattuto durante i bombardamenti del 1993. Adesso tutto è sotto tutela dell’UNESCO, ma a parte l’architettura perfettamente riprodotta, dell’antico borgo popolato da artigiani e botteghe rimane poco. Oggi è tutto un fiorire coloratissimo di negozietti di souvenir e di bar e ristoranti per le migliaia di turisti che si stipano sulle rampe del Ponte Vecchio.

Il caldo è asfissiante e la marea umana lo amplifica all’inverosimile. Non sono proprio a mio agio e decido di ripartire. Per strada, attraversando la città nuova, cerco i segni di quel conflitto recente. E li trovo, per nulla mimetizzati. Anzi, sotto gli occhi di tutti. Palazzine sventrate e segni di proiettili sui muri. Vestigia mute e immobili di una follia, che fingiamo di aver archiviato, ma che invece ci ricorda che basta un attimo per scivolare di nuovo nel caos.

Esco da Mostar non senza difficoltà e riprendo il viaggio verso Sarajevo, dove arrivo nel primo pomeriggio, guidando senza fretta lungo la statale che costeggia la Neretva. Uno spettacolo. Una delle strade panoramiche più belle che abbia attraversato ad oggi. Il fiume ha un colore verde smeraldo intenso e a quest’ora del pomeriggio una brezza termica scende rapida dai rilievi, prende velocità e increspa la superficie animandola con una carezza delicata. La luce è intensa e i colori sono nettissimi: azzurro del cielo, verde del fiume e grigio delle rocce.

A Sarajevo, i segni dell’assedio durato quasi 46 mesi dal 1992 al 1996 sono più evidenti e profondi. Nuove costruzioni si mescolano ai ruderi semidistrutti lasciati dal conflitto, ma la città oggi è in fermento e ricostruzione continua. Il centro antico è un brulicare di vita, di colori, di odori e di gente e la miscela tra oriente e occidente è palpabile, quasi…grassa e si coglie a vista. Su consiglio della receptionist dell’hotel, mangio ad una specie di bistrot turco, dove mi servono una porzione abbondante di Pita Burek, ripiena di carne speziata. Avrò gli incubi di notte e l’arsura mi farà lievitare la lingua, ma intanto mi lecco i baffi!

Non ho dormito affatto in traghetto e ho guidato con il fuoco nell’aria, quindi gironzolo ancora un po’ per la città vecchia e torno presto in hotel. Mi siedo nel cortiletto per una pausa sigaro prima di andare a dormire. Dal bar limitrofo le note di musica tecno si mescolano armonicamente al canto del muezzin, che chiama alla preghiera della sera. Affascinante, davvero.

L’indomani mattina riparto all’alba per attraversare il confine con il Montenegro, che mi dicono sia affollato, per arrivare nel primo pomeriggio a Kotor e lambire le bocche di Cattaro lungo la strada che le costeggia. Inizialmente, programmo di attraversare da Foca e tagliare per il massiccio del Durmitor. Ma senza rendermene conto il navigatore mi fa scendere di nuovo lungo la Neretva fino a Mostar, per poi deviare verso l’interno, direzione Stolac e R427. Benedetto GPS, che mi regala una tracciato magnifico a valle del fiume Bregava, un luogo incantato e fuori dagli itinerari standard. La strada ha il fondo un po’ sconnesso e irregolare, ma non è per correre, anzi è per un ritmo lento che consente di assaporare il contrasto tra la quiete del fiume a destra e i segni della storia recente alla mia sinistra. Ad un certo punto, l’acqua del fiume si abbassa ed è talmente cristallina che vedo il fondo dalla strada. Mi fermo, spengo la moto. Silenzio e quiete. Nemmeno lo scorrere invisibile dell’acqua rompe l’incanto. La tentazione è irresistibile e cedo. Mi spoglio e mi ficco in mutande nell’acqua gelata e rischio: la bevo. Un refrigerio che bilancia la temperatura interna del mio corpo con quella esterna immersa in quel liquido trasparente e gelido. Rimango a mollo per qualche istante, che a me sembra lunghissimo e bellissimo. Poi, mi rivesto tutto bagnato e riparto e dopo nemmeno dieci minuti sono di nuovo asciutto dentro e fuori. Il termometro segna 43 gradi. Ma io sto benissimo.

Stesso clima torrido al confine con il Montenegro. Il doganiere è gentile e parla inglese perfettamente. Mi chiede passaporto, libretto della moto e carta verde. Glieli consegno, ma vedo che tergiversa e mi preoccupo. Lui se ne accorge, sorride e si scusa, spiegandomi che le linee internet sono saltate e bisogna che aspetti qualche minuto. Mi invita a parcheggiare all’ombra nell’attesa, offrendomi una bottiglia d’acqua che ingollo con avidità (sono brasato a puntino e si vede). Dopo una decina di minuti di chiacchiere amene sul da dove vengo, dove vado, che faccio nella vita ecc. urla qualcosa ad un collega, che entra nell’ufficio e esce con un librone ingiallito dal tempo: “La registro come si faceva una volta: a mano — e ride —, altrimenti rischia di rimanere qui tutta la giornata.” Annota numero di targa, marca della moto e numero del passaporto, mette un timbro, mi prende la mano con entrambe le sue (enormi) e mi augura buon viaggio. Il mito dei doganieri balcanici, duri e brutali si sfalda definitivamente.

La strada da qui in poi è una pennellata netta di asfalto compatto e perfetto su una tela rocciosa, intervallata da cespugli verdissimi e profumati di mirto, abeti nani e altri arbusti che non riconosco. Non la percorro, è lei che mi porta, fino a quando dietro una curva non appare il panorama mozzafiato delle bocche di Cattaro. Una farfalla di acqua blu scuro disegnata da pendii a picco altissimi. Il panorama è magnifico e mi fermo incantato.

Finalmente, all’imbrunire, arrivo a Kotor (Cattaro in Italiano) città patrimonio dell’umanità e a ragione. Per oltre 350 anni, fino al 1797, è appartenuta alla Repubblica di Venezia che ha lasciato un segno indelebile nell’architettura di questa città che si specchia nelle bocche di Cattaro, una serie di profondi e frastagliati bacini perfettamente riparati dal mare aperto, che costituiscono il più grande porto naturale dell’Adriatico e che ricordano un po’ i fiordi Norvegesi. Un gioiellino, Kotor! E ne puoi percorrere le stradine strette decine di volte notando ad ogni passaggio un nuovo o diverso particolare, come se cambiasse prospettiva. È la pietra ad animarsi o il brulichio di turisti che gli dà vita?

L’indomani fa il solito caldo e il sole picchia. Indosso solo una polo e l’air-bag, e parto percorrendo la strada che si inerpica sulla montagna alle spalle di Kotor verso Lovcen. Al 12mo tornante perdo il conto delle curve e mi concentro piuttosto sulla carreggiata che è strettissima e ospita a malapena una macchina. Non è proprio una strada agevole: non c’è guard-rail e tutti a guardare giù il panorama di Cattaro (con annesse distrazioni alla guida!). Per fortuna, io la risalgo protetto a destra da una propaggine sud orientale delle Alpi Dinariche. Dopo 14 km mozzafiato, arrivo in cima e ridiscendo l’altro versante della montagna tra boschi di querce bulgare e abeti verso Cettigne. Curve perfette e veloci fino all’innesto con una stradina larga meno di due metri tra vigne e roveti in direzione del Lago di Scutari, che per due terzi è nel territorio montenegrino e per il restante terzo in quello albanese. La strada si restringe sempre più fino a diventare una lingua di asfalto sconnesso. Ad un tratto, senza preavviso, si apre il panorama del lago davanti a me e mi fermo, godendomelo con gli occhi e con l’anima. Ridiscendo il declivio e arrivo a Virpazar. Imbocco la lungo lago e mi fermo a respirare sulla riva dello Scutari, la più grande riserva d’acqua dei Balcani. In fondo vedo l’Albania, e mi riprometto di andarci un’altra volta.

Dopo il lago, tocca ai monti e più precisamente al massiccio del Durmitor, a nord del Montenegro, fino a 2500 metri di altitudine. Parto presto, perché sarà un percorso di oltre 500km e uscire da Kotor è un’impresa. La strada si snoda lungo le rive del Cattaro per 22km affollati di auto, camion e furgoni, tutti con uno stile di guida a tratti piuttosto eccentrico. Finalmente riprendo la statale panoramica e devio verso Niksic, percorrendo una strada bizzarra che alterna asfalto nuovissimo e, in alcuni tratti, senza preavviso si interrompe e diventa sterrato e pietre. Mi fermo per un caffè ad un bar sulla strada e la donna dietro al bancone mi guarda e mi ordina letteralmente di sedermi (“Sit down!”) e mi indica il cielo che all’orizzonte è plumbeo e squarciato di tanto in tanto da fulmini. Sta per piovere? Torno indietro? Ma no, sono equipaggiato…al diavolo…!

Per raggiungere Savnink, percorro una stradina tortuosa in mezzo alle montagne. Magnifica. Ma fulmini e saette si intensificano, illuminando il cielo ormai grigio scurissimo e carico d’acqua. Bruttissimo segno. Meglio indossare la tuta antipioggia. Mi vesto come un palombaro e vado. All’uscita di un tunnel di 6 km piove, ma è accettabile. Da Savnik devio verso Kolasin e poi Mojkovac per risalire la P4 che costeggia il fiume Tara. Percorro i venti chilometri della strada costruita sul bordo del canyon, secondo solo a quello del Colorado per profondità, trattenendo il respiro, letteralmente incantato. Quando giungo all’innesto con la P5, devio a sinistra e vado verso Zabliak, dove la pioggia smette del tutto. Ho ancora tempo e sono rinvigorito dallo spettacolo del percorso appena compiuto. Mi immetto così in una delle stradine panoramiche che attraversano il Parco del Durmitor, una linguetta d’asfalto stretta e scivolosa per la pioggia, ma piacevolissima e che termina su uno spiazzo dove un agente della forestale mi indica di proseguire per una decina di chilometri in fuoristrada. Il fondo adesso è pietroso, ma l’acqua è scivolata tra le rocce senza creare pantani di fango insidiosi. Sono leggero, non ho bagagli, ho gomme semi-tassellate e così posso mantenere un’andatura allegra, divertendomi come un bambino al parco giochi.

Quando lo sterrato termina, ritrovo l’asfalto, ma non ho la minima idea di dove stia andando. Ad un tratto, mi ritrovo non so come sul Lago Piva, attraverso un ponte e mi fermo. Apro la cartina e usando la bussola mi oriento e proseguo. I cartelli stradali mi confortano. Sto andando a sud verso Niksic e da lì la strada verso Kotor è nota.

Prima dei Balcani ho attraversato la Calabria, la Basilicata e la Puglia e da lì fino alle Marche, totalizzando al momento oltre 4000km, che comincio a sentire, dato che la cervicale si infiamma sempre più spesso e sempre prima del normale. Vorrei scendere in Albania, ma sarà per una prossima volta e così decido di prendermi qualche giorno di riposo dirigendomi verso la Dalmazia croata, per fermarmi un paio di giorni a Brac (Brazza in italiano). L’isola è grande abbastanza da consentirmi qualche giretto interessante. Certo è a quasi 300km da Kotor e ci vorrebbero teoricamente due traghetti per arrivare senza lasciare la Croazia. Ma scelgo di tentare la sorte e passare prima dal Montenegro alla Croazia verso Dubrovnik e poi percorrere il breve tratto di Bosnia dentro la Croazia stessa e rientrarvi. La prima dogana è affollatissima, ma un camionista mi fa segno di avanzare e ovviamente obbedisco! Arrivo alla barriera saltando tutta la fila e nessuno in macchina protesta, capendo perfettamente che loro hanno l’aria condizionata e io, in moto e tutto equipaggiato sotto 40 gradi all’ombra, sfrigolo come un filetto sulla graticola. Passo liscio e proseguo verso Dubrovnik dove devo assolutamente fermarmi. Questa è Ragusa di Dalmazia e con l’omonima in Sicilia (dove sono nato e ho vissuto la mia giovinezza) pare abbia in comune l’etimo: Lau cioè la rupe. Entrambe infatti sono appoggiate sulla roccia, la prima alle pendici del Monte Sergio, la seconda (la mia) sull’altipiano dei monti iblei (senza contare che Ibla, la città antica, è posta su una collina a forma di pesce). Peccato però che i 43 gradi all’ombra, l’elevata umidità e gli orari rigidi dei traghetti per Brac mi impediscono di fermarmi per più di un paio d’ore. Ci tornerò.

Riparto all’una con il sole allo zenit, attraverso il doppio confine come un razzo (neanche vogliono vederli i documenti) e arrivo a Makarska mezz’ora prima della partenza del traghetto per Brac. Un’ora piacevole di traversata, scendo e attivo il gps. Ancora 43km fino all’hotel nel paesino di Postira. Parto che il sole comincia a tramontare. La strada è bellissima e affronto le curve con calma, piegando con dolcezza. Sono stanco, ho male alla cervicale e i gioielli mi fumano dal caldo. Ma sono sereno.

Risalgo una collina, e la strada deserta piega tranquilla verso ovest. La percorro mentre la voce di Joan Baez che canta “Diamond and Rust” echeggia nel casco. Imbocco una discesa che attraversa un boschetto di abeti e ammiro i rami degli alberi ai lati della carreggiata che si piegano gli uni verso gli altri cercando strenuamente di afferrarsi a formare un arco verde. Sullo sfondo il sole è una palla rossa brillante e infuocata, che si staglia netta e senza aloni sul mare azzurro chiaro.

Mi alzo sulle pedane, respiro l’odore di resina, mi abbaglio di luce e semplicemente godo di tanta bellezza. Mi emoziono al punto che comincio ad urlare con tutto il fiato che ho in gola. Di pura gioia.